mercoledì 28 luglio 2010
Scuola - ora di cinquanta minuti - insussistenza dell'obbligo di recupero
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RETELEGALE ANCONA |
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Scuola - ora di cinquanta minuti - insussitenza dell'obbligo di recupero
La durata dell'ora di lezione è normalmente, come potrebbe sembrare ovvio, di sessanta minuti.
Tuttavia può accedere che, nelle scuole dove il fenomeno del pendolarismo è particolarmente diffuso fra gli studenti, gli orari scolastici non coincidano con quelli dei mezzi di trasporto. Per questo motivo (e, più in generale, per tutti i motivi di forza maggiore) la durata dell'ora di lezione può essere ridotta a cinquanta minuti.
Le riduzioni dell'orario possono essere decise solo per causa di forza maggiore e sono regolate dall'art. 28, comma 8, CCNL comparto scuola, del 24 ottobre 2007, il quale, a sua volta, stabilisce che “... la materia resta regolata dalle circolari ministeriali numero 243, del 22 settembre 1979 e 192, del 3 luglio 1980 ...”.
Ai sensi della circolare n. 243, in caso di “... accertate esigenze sociali degli studenti, derivanti da insuperabili difficoltà dei trasporti...”, “... nei giorni della settimana nei quali l'orario delle lezioni è di sette ore la riduzione può riferirsi alle prime due e alle ultime tre ore ...” e “non è configurabile alcun obbligo per i docenti di recuperare le frazioni orarie oggetto di riduzione”.
La circolare n. 192 del 1980, in riferimento alla n. 243 del 1979, stabilisce la possibilità di decidere “... eventuali riduzioni di orario anche nelle ipotesi non contemplate dalla predetta circolare”, estendendo la possibilità di riduzione e rendendola possibile sia per tutte le ore di lezione, sia per problemi diversi dal trasporto.
Nell'ambito delle varie controversie instauratesi per il rispetto del divieto di recupero, troppo frequentemente violato dai presidi, i vari Uffici scolastici regionali mantengono una linea abbastanza unitaria, sostenendo che l'orario scolastico è deciso dal Dirigente scolastico “...nella propria responsabilità gestionale, affidatagli da norme di legge (art. 25, del D. L.vo165/2001)” e che “... gli interventi del Consiglio d'istituto e del Collegio docenti...” sono meramente “preparatori”, rispetto alla decisione del dirigente scolastico.
In sostanza, il preside fa ciò che vuole, anche in barba a quanto deliberato dai vari organi collegiali (quando non sono gli stessi presidi ad orientare e guidare le decisioni).
Ciò non è assolutamente vero.
Ai fini di un corretto inquadramento giuridico-contrattuale della questione, appaiono fondamentali altre due norme: quella dell'art. 25, comma 2°, D.L.vo 165/2001, dove si stabilisce che l'esercizio dei poteri decisionali di gestione e organizzazione dell'istituto, deve avvenire “nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici”, e quella dell'art. 28, comma 8, del vigente CCNL comparto scuola, dove, sempre riferendosi all'eventuale diminuzione della durata dell'ora di lezione, si stabilisce che “... la relativa delibera è assunta dal consiglio di circolo o d'istituto”.
Pertanto, in base all'assetto normativo e contrattuale sopra evidenziato e tenuto conto delle dovute precisazioni, si può formulare il seguente principio: l'orario scolastico è deciso dal direttore scolastico; tuttavia (contrariamente a quanto affermato dai vari USR), in caso di accertate esigenze sociali degli studenti, derivanti da insuperabili difficoltà dei trasporti o da altri fattori, dietro delibera assunta dal consiglio di circolo o d'istituto, il preside può ridurre di dieci minuti la durata di tutte le ore di lezione, senza che possa configurarsi un obbligo di recupero in capo ai docenti.
In sintesi e per quanto qui interessa, quando esiste un'esigenza insuperabile, la conseguente riduzione dell'orario non deve essere recuperata.
La circostanza parrebbe di poco conto, ma l'esperienza quotidiana insegna che l'abuso dello strumento del recupero comporta per gli insegnati conseguenze piuttosto pesanti.
In alcuni istituti il preside è riuscito ad imporre ai docenti recuperi che superano le cento ore.
Le modalità di questi recuperi, poi, lasciano alquanto perplessi: vengono, infatti, poste a recupero anche le attività che si sarebbero dovute pagare con il fondo d'istituto, ottenendo, così un notevole, ma illegittimo, risparmio di denaro.
Alla contrattazione d'istituto spetta il compito di arginare la fame di denaro dei presidi, i quali, troppo spesso, scaricano sui docenti i costi dei tagli che la scuola sta subendo.
Il presente articolo verrà aggiornato all'esito delle varie iniziative giudiziarie ancora in corso.
Avv. Alberto Piloni - retelegale Ancona
La durata dell'ora di lezione è normalmente, come potrebbe sembrare ovvio, di sessanta minuti.
Tuttavia può accedere che, nelle scuole dove il fenomeno del pendolarismo è particolarmente diffuso fra gli studenti, gli orari scolastici non coincidano con quelli dei mezzi di trasporto. Per questo motivo (e, più in generale, per tutti i motivi di forza maggiore) la durata dell'ora di lezione può essere ridotta a cinquanta minuti.
Le riduzioni dell'orario possono essere decise solo per causa di forza maggiore e sono regolate dall'art. 28, comma 8, CCNL comparto scuola, del 24 ottobre 2007, il quale, a sua volta, stabilisce che “... la materia resta regolata dalle circolari ministeriali numero 243, del 22 settembre 1979 e 192, del 3 luglio 1980 ...”.
Ai sensi della circolare n. 243, in caso di “... accertate esigenze sociali degli studenti, derivanti da insuperabili difficoltà dei trasporti...”, “... nei giorni della settimana nei quali l'orario delle lezioni è di sette ore la riduzione può riferirsi alle prime due e alle ultime tre ore ...” e “non è configurabile alcun obbligo per i docenti di recuperare le frazioni orarie oggetto di riduzione”.
La circolare n. 192 del 1980, in riferimento alla n. 243 del 1979, stabilisce la possibilità di decidere “... eventuali riduzioni di orario anche nelle ipotesi non contemplate dalla predetta circolare”, estendendo la possibilità di riduzione e rendendola possibile sia per tutte le ore di lezione, sia per problemi diversi dal trasporto.
Nell'ambito delle varie controversie instauratesi per il rispetto del divieto di recupero, troppo frequentemente violato dai presidi, i vari Uffici scolastici regionali mantengono una linea abbastanza unitaria, sostenendo che l'orario scolastico è deciso dal Dirigente scolastico “...nella propria responsabilità gestionale, affidatagli da norme di legge (art. 25, del D. L.vo165/2001)” e che “... gli interventi del Consiglio d'istituto e del Collegio docenti...” sono meramente “preparatori”, rispetto alla decisione del dirigente scolastico.
In sostanza, il preside fa ciò che vuole, anche in barba a quanto deliberato dai vari organi collegiali (quando non sono gli stessi presidi ad orientare e guidare le decisioni).
Ciò non è assolutamente vero.
Ai fini di un corretto inquadramento giuridico-contrattuale della questione, appaiono fondamentali altre due norme: quella dell'art. 25, comma 2°, D.L.vo 165/2001, dove si stabilisce che l'esercizio dei poteri decisionali di gestione e organizzazione dell'istituto, deve avvenire “nel rispetto delle competenze degli organi collegiali scolastici”, e quella dell'art. 28, comma 8, del vigente CCNL comparto scuola, dove, sempre riferendosi all'eventuale diminuzione della durata dell'ora di lezione, si stabilisce che “... la relativa delibera è assunta dal consiglio di circolo o d'istituto”.
Pertanto, in base all'assetto normativo e contrattuale sopra evidenziato e tenuto conto delle dovute precisazioni, si può formulare il seguente principio: l'orario scolastico è deciso dal direttore scolastico; tuttavia (contrariamente a quanto affermato dai vari USR), in caso di accertate esigenze sociali degli studenti, derivanti da insuperabili difficoltà dei trasporti o da altri fattori, dietro delibera assunta dal consiglio di circolo o d'istituto, il preside può ridurre di dieci minuti la durata di tutte le ore di lezione, senza che possa configurarsi un obbligo di recupero in capo ai docenti.
In sintesi e per quanto qui interessa, quando esiste un'esigenza insuperabile, la conseguente riduzione dell'orario non deve essere recuperata.
La circostanza parrebbe di poco conto, ma l'esperienza quotidiana insegna che l'abuso dello strumento del recupero comporta per gli insegnati conseguenze piuttosto pesanti.
In alcuni istituti il preside è riuscito ad imporre ai docenti recuperi che superano le cento ore.
Le modalità di questi recuperi, poi, lasciano alquanto perplessi: vengono, infatti, poste a recupero anche le attività che si sarebbero dovute pagare con il fondo d'istituto, ottenendo, così un notevole, ma illegittimo, risparmio di denaro.
Alla contrattazione d'istituto spetta il compito di arginare la fame di denaro dei presidi, i quali, troppo spesso, scaricano sui docenti i costi dei tagli che la scuola sta subendo.
Il presente articolo verrà aggiornato all'esito delle varie iniziative giudiziarie ancora in corso.
Avv. Alberto Piloni - retelegale Ancona
martedì 27 luglio 2010
Sinistro con cinghiali: chi paga? Commento a Cassazione, 8 gennaio 2010, n. 80
09:03 |
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Incidente con cinghiali: chi paga? Commento alla sentenza della Corte di Cassazione n. 80, dell'8 gennaio 2010
Con sentenza n. 80, dell'8 gennaio 2010, la Corte di Cassazione, emetteva la sentenza in commento, aggiungendo un ultriore tassello all'annosa questione dei danni causati dagli animali selvatici alla circolazione stradale.
Il sinistro alla base della vicenda giudiziaria era avvenuto nel 1999, in provincia di Pesaro Urbino.
Senza dilungarsi sulla descrizione dei fatti, poco rilevanti ai fini che qui interessano, la Corte osservava che:
l'art. 14, comma 1°, lettera f), L. 8 giugno 1990, n. 142, attribuisce alle province le funzioni amministrative che attengono alla protezione della fauna selvatica (1° comma, lettera f);
l'art. 1, comma 1, L. 11 febbraio 1992 n. 157 attribuisce alle regioni a statuto ordinario il compito di emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie di fauna selvatica”;
l'art. 1, comma 3, dispone che le province attuano la disciplina regionale non per delega delle regioni, ma in virtù dell'autonomia ad esse attribuita dall'art. 14, comma 1°, lett. f della L. 8 giugno 1990, n. 142;
Ai sensi della normativa nazionale, pertanto, alle province spetta l'esplicazione delle concrete funzioni amministrative e di gestione, nell'ambito del loro territorio.
La Cassazione prosegue affrontando lo specifico della Regione Marche.
La L. R. 5 gennaio 1995 n. 7 ha attribuito alle province “....tutti i compiti rilevanti ai fini della gestione della fauna selvatica...” quali la creazione di oasi di protezione, di zone di ripopolamento e di cattura, l'immissione di nuovi capi, la realizzazione degli interventi tecnici e delle attrezzature atti a perseguire gli scopi di protezione e di incremento della specie (art. 8), tutte attività “che possono comportare maggiori o minori rischi di interferenze degli animali con le attività esterne, in relazione alle modalità con cui vengono espletate”.
Il pericolo che la fauna selvatica possa interferire con le attività umane e provocare danni, pertanto, dipende esclusivamente dall'attività di controllo della provincia.
La stessa LR 7/1995 stabilisce, inoltre, che le province sono tenute ad esercitare le attività di vigilanza sulla riserva, anche tramite associazioni venatorie e guardie giurate e che provvedano alla stipula di polizze assicurative per il risarcimento dei danni, senza espressa limitazione a particolari categorie di danno (art. 34, comma 2°).
In quanto inserita all'interno di una legge destinata a regolare i danni alle coltivazioni, quest'ultima norma non può essere considerata applicabile a qualsiasi tipo di danno; tuttavia, viene considerata dalla Corte di Cassazione “...significativa al fine di dimostrare che “...si riconosce che l'ente gestore del territorio, tenuto all'indennizzo e interessato alla stipula dell'assicurazione è la provincia...”.
Il principio generale enunciato dalla Cassazione in tema di responsabilità per i danni causati dalla selvaggina è, in definitiva, il seguente: “è da ritenere che la responsabilità aquiliana per i danni a terzi debba essere imputata all'ente (Regione, Provincia, Ente parco o Associazione) a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, con autonomia decisionale sufficiente a consentire loro di svolgere l'attività in modo da poter amministrare i rischi di danni a terzi che da tali attività derivino. La legge n. 7/1995 della Regione Marche risulta avere effettivamente attribuito alle provincie la quasi totalità dei poteri di amministrazione della fauna selvatica, nell'ambito del loro territorio...”.
La sentenza sembra, pertanto, porre la parola fine all'annosa questione della legittimazione passiva in ordine ai danni alla circolazione stradale causati dalla fauna selvatica.
Tuttavia, con disposizioni successiva ai fatti oggetto di giudizio, la questione ha avuto importanti sviluppi, che appare necessario esaminare.
Con l'art. 34bis, L.R. 7/1995, aggiunto dall'art. 15, comma 5, L.R. 29 luglio 2008, n. 25, veniva stabilita l'istituzione di un fondo “per l'indennizzo da parte della Regione dei danni causati alla circolazione stradale dalla fauna selvatica”; la determinazione della “tipologia del danno indennizzabile e delle modalità per le relativa liquidazioni” veniva rinviata ad un separato provvedimento.
Con la DGR n. 1469/2008 (attualmente sostituita dalla DGR n. 1132, del 6 luglio 2009) la Regione Marche regolamentava le modalità del risarcimento e i danni risarcibili, prevedendo, però, notevoli limitazioni (50% del danno, solo per sinistri nei quali sono coinvolti “ungulati” e nei quali il concorso di colpa del conducente non è valutabile in misura superiore al 20%) e considerando il pagamento unicamente un indennizzo.
Inoltre, non venivano modificate le attribuzioni e le deleghe in favore delle province che la Corte di legittimità aveva posto alla base della propria sentenza.
Va anche considerato che, come si legge nella relazione che accompagna la citata DGR, fino a quel momento la Regione aveva comunque risarcito i danni in questione tramite apposita polizza. La decisione di istituire il fondo di cui all'art. 34bis, veniva presa proprio in virtù dell'enorme costo dell'assicurazione; ciò comportava che la Regione abbandonava la linea del “risarcimento del danno” per intraprendere la strada dell' "indennizzo".
In sostanza, con detto provvedimento la Regione Marche non sembra essersi attribuita la responsabilità dei danni causati dalla fauna selvatica alla circolazione stradale, ma ha previsto semplicemente un apposito fondo per indennizzare gli automobilisti, allo stesso modo di come aveva fatto con l'art. 34, in relazione ai danni all'agricoltura, dove, “per far fronte ai danni non altrimenti risarcibili arrecati alla produzione agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati o a pascoli dalla fauna selvatica, in particolare da quella protetta, e dall'esercizio dell'attività venatoria, è costituito un fondo regionale destinato alla prevenzione e ai risarcimenti”.
L'art. 34bis, L.R. 7/1995, pertanto, nulla sembra innovare rispetto al quadro normativo esaminato dalla sentenza 80/2010 della Corte di Cassazione, in quanto lascia inalterate le disposizioni che avevano portato la corte a decidere per la legittimazione passiva della provincia.
Se, al contrario, venisse considerata determinante la creazione del fondo al fine dell'attribuzione della legittimazione passiva, dato che la regione Marche limita il risarcimento al 50% del danno, si avrebbe il paradosso per cui metà spetterebbe alla Regione e l'altra metà alla Provincia di Macerata.
Inoltre, la Regione, se da un lato potrebbe auto-investirsi del dovere di indennizzare i danni, dall'altro non avrebbe certo il potere di modificare i principi generali dell'ordinamento in tema di responsabilità extracontrattuale, posti alla base della decisione con la quale la Corte di Cassazione ha ritenuto obbligata al risarcimento la provincia.
Si ritiene pertanto, pur se con qualche dubbio ed in attesa di un attento vaglio giurisprudenziale, che la legittimazione passiva spetti alla Provincia di Macerata.
Alla regione Marche può essere chiesto unicamente il pagamento dell'idennità prevista dalla DGR n. 1469/2008 (attualmente sostituita dalla DGR n. 1132, del 6 luglio 2009), con tutte le limitazioni ivi indicate (50% dei danni subiti e solo per sinistri con ungulati).
Avv. Alberto Piloni
Con sentenza n. 80, dell'8 gennaio 2010, la Corte di Cassazione, emetteva la sentenza in commento, aggiungendo un ultriore tassello all'annosa questione dei danni causati dagli animali selvatici alla circolazione stradale.
Il sinistro alla base della vicenda giudiziaria era avvenuto nel 1999, in provincia di Pesaro Urbino.
Senza dilungarsi sulla descrizione dei fatti, poco rilevanti ai fini che qui interessano, la Corte osservava che:
l'art. 14, comma 1°, lettera f), L. 8 giugno 1990, n. 142, attribuisce alle province le funzioni amministrative che attengono alla protezione della fauna selvatica (1° comma, lettera f);
l'art. 1, comma 1, L. 11 febbraio 1992 n. 157 attribuisce alle regioni a statuto ordinario il compito di emanare norme relative alla gestione ed alla tutela di tutte le specie di fauna selvatica”;
l'art. 1, comma 3, dispone che le province attuano la disciplina regionale non per delega delle regioni, ma in virtù dell'autonomia ad esse attribuita dall'art. 14, comma 1°, lett. f della L. 8 giugno 1990, n. 142;
Ai sensi della normativa nazionale, pertanto, alle province spetta l'esplicazione delle concrete funzioni amministrative e di gestione, nell'ambito del loro territorio.
La Cassazione prosegue affrontando lo specifico della Regione Marche.
La L. R. 5 gennaio 1995 n. 7 ha attribuito alle province “....tutti i compiti rilevanti ai fini della gestione della fauna selvatica...” quali la creazione di oasi di protezione, di zone di ripopolamento e di cattura, l'immissione di nuovi capi, la realizzazione degli interventi tecnici e delle attrezzature atti a perseguire gli scopi di protezione e di incremento della specie (art. 8), tutte attività “che possono comportare maggiori o minori rischi di interferenze degli animali con le attività esterne, in relazione alle modalità con cui vengono espletate”.
Il pericolo che la fauna selvatica possa interferire con le attività umane e provocare danni, pertanto, dipende esclusivamente dall'attività di controllo della provincia.
La stessa LR 7/1995 stabilisce, inoltre, che le province sono tenute ad esercitare le attività di vigilanza sulla riserva, anche tramite associazioni venatorie e guardie giurate e che provvedano alla stipula di polizze assicurative per il risarcimento dei danni, senza espressa limitazione a particolari categorie di danno (art. 34, comma 2°).
In quanto inserita all'interno di una legge destinata a regolare i danni alle coltivazioni, quest'ultima norma non può essere considerata applicabile a qualsiasi tipo di danno; tuttavia, viene considerata dalla Corte di Cassazione “...significativa al fine di dimostrare che “...si riconosce che l'ente gestore del territorio, tenuto all'indennizzo e interessato alla stipula dell'assicurazione è la provincia...”.
Il principio generale enunciato dalla Cassazione in tema di responsabilità per i danni causati dalla selvaggina è, in definitiva, il seguente: “è da ritenere che la responsabilità aquiliana per i danni a terzi debba essere imputata all'ente (Regione, Provincia, Ente parco o Associazione) a cui siano stati concretamente affidati, nel singolo caso, i poteri di amministrazione del territorio e di gestione della fauna ivi insediata, con autonomia decisionale sufficiente a consentire loro di svolgere l'attività in modo da poter amministrare i rischi di danni a terzi che da tali attività derivino. La legge n. 7/1995 della Regione Marche risulta avere effettivamente attribuito alle provincie la quasi totalità dei poteri di amministrazione della fauna selvatica, nell'ambito del loro territorio...”.
La sentenza sembra, pertanto, porre la parola fine all'annosa questione della legittimazione passiva in ordine ai danni alla circolazione stradale causati dalla fauna selvatica.
Tuttavia, con disposizioni successiva ai fatti oggetto di giudizio, la questione ha avuto importanti sviluppi, che appare necessario esaminare.
Con l'art. 34bis, L.R. 7/1995, aggiunto dall'art. 15, comma 5, L.R. 29 luglio 2008, n. 25, veniva stabilita l'istituzione di un fondo “per l'indennizzo da parte della Regione dei danni causati alla circolazione stradale dalla fauna selvatica”; la determinazione della “tipologia del danno indennizzabile e delle modalità per le relativa liquidazioni” veniva rinviata ad un separato provvedimento.
Con la DGR n. 1469/2008 (attualmente sostituita dalla DGR n. 1132, del 6 luglio 2009) la Regione Marche regolamentava le modalità del risarcimento e i danni risarcibili, prevedendo, però, notevoli limitazioni (50% del danno, solo per sinistri nei quali sono coinvolti “ungulati” e nei quali il concorso di colpa del conducente non è valutabile in misura superiore al 20%) e considerando il pagamento unicamente un indennizzo.
Inoltre, non venivano modificate le attribuzioni e le deleghe in favore delle province che la Corte di legittimità aveva posto alla base della propria sentenza.
Va anche considerato che, come si legge nella relazione che accompagna la citata DGR, fino a quel momento la Regione aveva comunque risarcito i danni in questione tramite apposita polizza. La decisione di istituire il fondo di cui all'art. 34bis, veniva presa proprio in virtù dell'enorme costo dell'assicurazione; ciò comportava che la Regione abbandonava la linea del “risarcimento del danno” per intraprendere la strada dell' "indennizzo".
In sostanza, con detto provvedimento la Regione Marche non sembra essersi attribuita la responsabilità dei danni causati dalla fauna selvatica alla circolazione stradale, ma ha previsto semplicemente un apposito fondo per indennizzare gli automobilisti, allo stesso modo di come aveva fatto con l'art. 34, in relazione ai danni all'agricoltura, dove, “per far fronte ai danni non altrimenti risarcibili arrecati alla produzione agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati o a pascoli dalla fauna selvatica, in particolare da quella protetta, e dall'esercizio dell'attività venatoria, è costituito un fondo regionale destinato alla prevenzione e ai risarcimenti”.
L'art. 34bis, L.R. 7/1995, pertanto, nulla sembra innovare rispetto al quadro normativo esaminato dalla sentenza 80/2010 della Corte di Cassazione, in quanto lascia inalterate le disposizioni che avevano portato la corte a decidere per la legittimazione passiva della provincia.
Se, al contrario, venisse considerata determinante la creazione del fondo al fine dell'attribuzione della legittimazione passiva, dato che la regione Marche limita il risarcimento al 50% del danno, si avrebbe il paradosso per cui metà spetterebbe alla Regione e l'altra metà alla Provincia di Macerata.
Inoltre, la Regione, se da un lato potrebbe auto-investirsi del dovere di indennizzare i danni, dall'altro non avrebbe certo il potere di modificare i principi generali dell'ordinamento in tema di responsabilità extracontrattuale, posti alla base della decisione con la quale la Corte di Cassazione ha ritenuto obbligata al risarcimento la provincia.
Si ritiene pertanto, pur se con qualche dubbio ed in attesa di un attento vaglio giurisprudenziale, che la legittimazione passiva spetti alla Provincia di Macerata.
Alla regione Marche può essere chiesto unicamente il pagamento dell'idennità prevista dalla DGR n. 1469/2008 (attualmente sostituita dalla DGR n. 1132, del 6 luglio 2009), con tutte le limitazioni ivi indicate (50% dei danni subiti e solo per sinistri con ungulati).
Avv. Alberto Piloni
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mercoledì 21 luglio 2010
Danni conseguenti a caduta, causata da un'autovettura posteggiata sul marciapiede. Tribunale di Camerino, n. 352, del 27 dicembre 2008
10:20 |
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Vanno risarciti i danni conseguenti ad una caduta causata da un'autovettura posteggiata su di un marciapiede - Commento alla sentenza del Tribunale di Camerino n. 352/08, del 27 dicembre 2008
La sera dell'Epifania del 2007 il signor XXXXXX posteggiava la propria autovettura su di un marciapiede; la signora XXXXXX, che percorreva quel marciapiede, nel tentare di passare nell'esiguo spazio lasciato ai pedoni, urtava lo specchietto retrovisore, cadeva dal marciapiede e, tentando di attutire la caduta, si procurava la frattura del polso destro. Portata presso il locale pronto soccorso, le veniva diagnosticata una frattura pluriframmentata metaepifisaria del radio destro, con spostamento dei monconi.
Interveniva sul posto la Polizia Municipale e, al proprietario del veicolo, elevava contravvenzione ai sensi dell'art. 158, comma 1°, lett. h), C.d.S..
La signora XXXXXX sporgeva querela nei confronti del proprietario dell'autovettura, che risultava anche essere l'autore dell'infelice parcheggio.
Il susseguente procedimento si svolgeva dinnanzi al Giudice di pace di San Severino Marche.
Nel corso del processo veniva accertato che:
l'auto era stata posteggiata sul marciapiede dall'imputato e lo ostruiva quasi per intero, lasciando solo due piccoli passaggi ai lati (tutti i testi, compresi quelli addotti dalla difesa, nonché le fotografie scattate nell'immediatezza dei fatti e prodotte dalle parti, confermavano la circostanza);
la signora XXXXXX, preceduta da altre due persone, tentava di passare lungo la striscia di marciapiede lasciata libera dalla vettura e posta sul lato prospiciente la strada (tutti i testi concordi);
la strada in questione risultava alquanto transitata ed il tratto in cui avveniva il sinistro risultava piuttosto insidioso in quanto posto sotto curva e, quindi, coperto (tutti i testi risultavano concordi); era, pertanto, troppo pericoloso, scendere dal marciapiede;
nel porre attenzione a dove metteva i piedi, la signora XXXXXX, anziana e con seri problemi di vista, urtava lo specchietto retrovisore destro dell'auto del signor XXXXXX e cadeva dal marciapiede sulla strada, rovinando a terra e procurandosi la frattura sopra descritta, con una malattia di 234 giorni, durante i quali subiva un lungo ricovero ospedaliero e due interventi di osteosintesi (testi concordi, certificazione medica e perizia medico-legale non contestati);
residuavano postumi permanenti invalidanti nella misura dell'8 %.
Il PM concludeva per la condanna dell'imputato alla multa di € 650,00.
La signora XXXXXX, costituitasi parte civile, concludeva chiedendo il ristoro dei danni subiti.
Con la sentenza n. 9/08 del 9 maggio 2008, Giudice di pace di San Severino Marche assolveva il signor XXXXXX dal reato p. e p. dall'art. 590 c.p., “perché il fatto non sussiste”.
Osservava il giudicante, che essendo l'auto “ferma e immobile, addirittura priva di conducente ....... il danno riportato non può essere ascritto alla circolazione stradale”, che non esisteva “...alcun nesso causale tra l'evento e la condotta tenuta dall'imputato”, in quanto “la macchina di questi, anche se parcheggiata fuori dagli appositi spazi, era comunque ferma, ben visibile e non costituiva affatto un pericolo occulto e imprevedibile”; concludeva, pertanto, che “l'evento si è verificato per l'imprudenza della signora XXXXXX”.
La signora XXXXXX proponeva appello ai soli effetti civili, dinnanzi al Tribunale di Camerino. La causa veniva discussa all'udienza del 23 dicembre 2008.
Con sentenza n. 352, del 27 dicembre 2008, in riforma della sentenza impugnata, il Tribunale condannava il signor XXXXXX al risarcimento del danno subito dalla signora XXXXXX, che quantificava in € 16.000,00, ed alla refusione delle spese di costituzione e di assistenza di parte civile per entrambi i gradi di giudizio.
Il giudice di secondo grado formulava questa importante premessa, che vale la pena di riportare per esteso:
“In tema di reato colposo, per poter addebitare un evento ad un determinato soggetto occorre accertare non solo la sussistenza del nesso causale materiale tra la condotta dell'agente (attiva od omissiva) e l'evento, ma anche la cosiddetta causalità della colpa, rispetto alla quale assumono un ruolo fondante la prevedibilità e l'evitabilità del fatto. Infatti, la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire.
Compito del giudice in proposito, per poter formalizzare l'addebito, è quello di identificare una norma specifica avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che, all'epoca della creazione della regola, consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti. Per l'effetto, ai fini dell'addebito, l'accadimento verificatosi deve essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, realizzandosi, così, la cosiddetta concretizzazione del rischio.
Peraltro, affermare, come afferma l'articolo 43 c.p., che, per aversi colpa, l'evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole, indica che anche l'indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) non avrebbe comunque evitato l'evento.
Si può, quindi, formalizzare l'addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili significative probabilità di scongiurare il danno (v. Cass., Sez. IV, 19512-08, Giuda al Diritto, n. 25, 2008, p. 93)”
Dopo una rapida disamina dei fatti risultanti dall'istruttoria di primo grado, il Giudicante passa all'esame del nesso causale fra la condotta del signor XXXXXX e l'evento lesivo.
Affermato che il nesso causale applicabile al tema della responsabilità extracontrattuale è lo stesso vigente a proposito del reato, identifica nella condotta accertata la condicio sine qua non dell'evento dannoso: “se la vettura fosse stata parcheggiata in modo regolare il fatto non si sarebbe verificato, perché la persona offesa sarebbe potuta passare agevolmente”.
Da ultimo, veniva esclusa l'esistenza di cause sopravvenute che, ai sensi e per gli effetti dell'art. 41, comma 2° cp, determinano l'interruzione del nesso causale (come sopra identificato) quando sono da sole sufficienti a determinare l'evento in quanto: “...è naturale che una persona non più in giovane età possa passare in modo disagevole in una situazione quale quella creata dall'imputato e, quindi, anche cadere, procurandosi lesioni”.
Alla data della sentenza non risultavano precedenti specifici.
Avv. Alberto Piloni
La sera dell'Epifania del 2007 il signor XXXXXX posteggiava la propria autovettura su di un marciapiede; la signora XXXXXX, che percorreva quel marciapiede, nel tentare di passare nell'esiguo spazio lasciato ai pedoni, urtava lo specchietto retrovisore, cadeva dal marciapiede e, tentando di attutire la caduta, si procurava la frattura del polso destro. Portata presso il locale pronto soccorso, le veniva diagnosticata una frattura pluriframmentata metaepifisaria del radio destro, con spostamento dei monconi.
Interveniva sul posto la Polizia Municipale e, al proprietario del veicolo, elevava contravvenzione ai sensi dell'art. 158, comma 1°, lett. h), C.d.S..
La signora XXXXXX sporgeva querela nei confronti del proprietario dell'autovettura, che risultava anche essere l'autore dell'infelice parcheggio.
Il susseguente procedimento si svolgeva dinnanzi al Giudice di pace di San Severino Marche.
Nel corso del processo veniva accertato che:
l'auto era stata posteggiata sul marciapiede dall'imputato e lo ostruiva quasi per intero, lasciando solo due piccoli passaggi ai lati (tutti i testi, compresi quelli addotti dalla difesa, nonché le fotografie scattate nell'immediatezza dei fatti e prodotte dalle parti, confermavano la circostanza);
la signora XXXXXX, preceduta da altre due persone, tentava di passare lungo la striscia di marciapiede lasciata libera dalla vettura e posta sul lato prospiciente la strada (tutti i testi concordi);
la strada in questione risultava alquanto transitata ed il tratto in cui avveniva il sinistro risultava piuttosto insidioso in quanto posto sotto curva e, quindi, coperto (tutti i testi risultavano concordi); era, pertanto, troppo pericoloso, scendere dal marciapiede;
nel porre attenzione a dove metteva i piedi, la signora XXXXXX, anziana e con seri problemi di vista, urtava lo specchietto retrovisore destro dell'auto del signor XXXXXX e cadeva dal marciapiede sulla strada, rovinando a terra e procurandosi la frattura sopra descritta, con una malattia di 234 giorni, durante i quali subiva un lungo ricovero ospedaliero e due interventi di osteosintesi (testi concordi, certificazione medica e perizia medico-legale non contestati);
residuavano postumi permanenti invalidanti nella misura dell'8 %.
Il PM concludeva per la condanna dell'imputato alla multa di € 650,00.
La signora XXXXXX, costituitasi parte civile, concludeva chiedendo il ristoro dei danni subiti.
Con la sentenza n. 9/08 del 9 maggio 2008, Giudice di pace di San Severino Marche assolveva il signor XXXXXX dal reato p. e p. dall'art. 590 c.p., “perché il fatto non sussiste”.
Osservava il giudicante, che essendo l'auto “ferma e immobile, addirittura priva di conducente ....... il danno riportato non può essere ascritto alla circolazione stradale”, che non esisteva “...alcun nesso causale tra l'evento e la condotta tenuta dall'imputato”, in quanto “la macchina di questi, anche se parcheggiata fuori dagli appositi spazi, era comunque ferma, ben visibile e non costituiva affatto un pericolo occulto e imprevedibile”; concludeva, pertanto, che “l'evento si è verificato per l'imprudenza della signora XXXXXX”.
La signora XXXXXX proponeva appello ai soli effetti civili, dinnanzi al Tribunale di Camerino. La causa veniva discussa all'udienza del 23 dicembre 2008.
Con sentenza n. 352, del 27 dicembre 2008, in riforma della sentenza impugnata, il Tribunale condannava il signor XXXXXX al risarcimento del danno subito dalla signora XXXXXX, che quantificava in € 16.000,00, ed alla refusione delle spese di costituzione e di assistenza di parte civile per entrambi i gradi di giudizio.
Il giudice di secondo grado formulava questa importante premessa, che vale la pena di riportare per esteso:
“In tema di reato colposo, per poter addebitare un evento ad un determinato soggetto occorre accertare non solo la sussistenza del nesso causale materiale tra la condotta dell'agente (attiva od omissiva) e l'evento, ma anche la cosiddetta causalità della colpa, rispetto alla quale assumono un ruolo fondante la prevedibilità e l'evitabilità del fatto. Infatti, la responsabilità colposa non si estende a tutti gli eventi che comunque siano derivati dalla violazione della norma, ma è limitata ai risultati che la norma stessa mira a prevenire.
Compito del giudice in proposito, per poter formalizzare l'addebito, è quello di identificare una norma specifica avente natura cautelare, posta a presidio della verificazione di un altrettanto specifico evento, sulla base delle conoscenze che, all'epoca della creazione della regola, consentivano di porre la relazione causale tra condotte e risultati temuti. Per l'effetto, ai fini dell'addebito, l'accadimento verificatosi deve essere proprio tra quelli che la norma di condotta tendeva ad evitare, realizzandosi, così, la cosiddetta concretizzazione del rischio.
Peraltro, affermare, come afferma l'articolo 43 c.p., che, per aversi colpa, l'evento deve essere stato causato da una condotta soggettivamente riprovevole, indica che anche l'indicato nesso eziologico non si configura quando una condotta appropriata (il cosiddetto comportamento alternativo lecito) non avrebbe comunque evitato l'evento.
Si può, quindi, formalizzare l'addebito solo quando il comportamento diligente avrebbe certamente evitato l'esito antigiuridico o anche solo avrebbe determinato apprezzabili significative probabilità di scongiurare il danno (v. Cass., Sez. IV, 19512-08, Giuda al Diritto, n. 25, 2008, p. 93)”
Dopo una rapida disamina dei fatti risultanti dall'istruttoria di primo grado, il Giudicante passa all'esame del nesso causale fra la condotta del signor XXXXXX e l'evento lesivo.
Affermato che il nesso causale applicabile al tema della responsabilità extracontrattuale è lo stesso vigente a proposito del reato, identifica nella condotta accertata la condicio sine qua non dell'evento dannoso: “se la vettura fosse stata parcheggiata in modo regolare il fatto non si sarebbe verificato, perché la persona offesa sarebbe potuta passare agevolmente”.
Da ultimo, veniva esclusa l'esistenza di cause sopravvenute che, ai sensi e per gli effetti dell'art. 41, comma 2° cp, determinano l'interruzione del nesso causale (come sopra identificato) quando sono da sole sufficienti a determinare l'evento in quanto: “...è naturale che una persona non più in giovane età possa passare in modo disagevole in una situazione quale quella creata dall'imputato e, quindi, anche cadere, procurandosi lesioni”.
Alla data della sentenza non risultavano precedenti specifici.
Avv. Alberto Piloni
martedì 20 luglio 2010
Mancata consegna alle RSU dei prospetti per la contrattazione - condotta antisindacale - Trib. Macerata, 23 dicembre 2009
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Scuola – RSU – Contrattazione d'istituto – Informazione preventiva – Tutela ex art. 28, L. 300/1970 – Mancata consegna dei prospetti – Condotta Antisindacale – Commento al decreto emesso dal Tribunale di Macerata, Sezione Lavoro, in data 23 dicembre 2009
1 – Antefatto
1.1 – Nell’ambito della trattativa sindacale volta alla determinazione dei criteri per la ripartizione delle risorse del fondo d’istituto, la RSU Cobas, prof.ssa XXXXXX, con comunicazione del 14 aprile 2009, chiedeva al dirigente scolastico, dott. XXXXXX, la consegna di “un prospetto comprensibile del fondo incentivante riguardante l'anno scolastico 2007/2008, che preveda nominativi, tipo di attività, il compenso orario, il numero delle ore effettuate e il compenso totale”.
Il dirigente scolastico non consegnava detto prospetto adducendo (con una comunicazione a dir poco criptica) inesistenti impedimenti dovuti alla legge sulla tutela dei dati sensibili (D.Lgs 196/2003).
Con comunicazione del 22 maggio 2009 la rappresentante provinciale del sindacato ricorrente, prof.ssa XXXXXX, invitava e diffidava il DS “a consegnare alla RSU d'istituto un prospetto contenente i nominativi dei soggetti che nel corso dell'a.s. 2007/2008 hanno svolto attività integrative del POF retribuite con il fondo d'istituto, le attività e le ore svolte, nonché i compensi percepiti, come previsto dall'art. 7 del CCNL vigente”.
Il preside non forniva risposta alle legittime richieste sindacali sopra riportate e ciò nonostante il termine per la conclusione della contrattazione d'istituto fosse ampiamente scaduto.
La vicenda non costituiva un episodio isolato ed era sintomatica di come, fino ad allora, il DS avesse impedito alle RSU (ed in particolare alla prof.ssa XXXXXX) qualsiasi possibilità di programmazione, controllo e verifica in ordine alla gestione del fondo d’istituto e, più in generale, abbia impedito lo svolgimento di una corretta attività sindacale di contrattazione.
Infatti, già con precedente decreto veniva dichiarata dal Tribunale di Macerata l'antisindacalità della condotta del prof. XXXXXX, consistita nel non aver convocato l'RSU COBAS ad una riunione per la discussione e stipula del contratto d'istituto.
Inoltre, in modo del tutto arbitrario, il preside provvedeva a conferire incarichi retribuiti con il fondo d'istituto senza la necessaria preventiva contrattazione con le RSU.
2 – Diritto
2.1 – Riferimenti normativi
Lo statuto dei lavoratori prevede, all’art. 28, la possibilità per gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, di adire l’autorità giudiziaria “qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà ed attività sindacale …”.
2.2 – Riferimenti contrattuali
L’art. 6, numero 2, lett. b) e g), del CCNL comparto scuola, pubblicato nel suppl. ord. alla G. U. n. 292, del 17 dicembre 2008, prevede che “sono materie di informazione preventiva annuale […] il piano delle risorse complessive per il salario accessorio, ivi comprese quelle di fonte non contrattuale”, “tutte le materie di contrattazione” […].
Le lettere h), l) e m) prevedono che “sono materie di contrattazione integrativa le [...] modalità di utilizzazione del personale docente in rapporto al piano dell'offerta formativa e al piano delle attività e modalità di utilizzazione del personale Ata in relazione al relativo piano delle attività formulato dal DSGA, sentito il personale medesimo...”, “i criteri per la ripartizione delle risorse del fondo d'istituto e per l'attribuzione dei compensi accessori, ai sensi dell'art. 45, comma 1, del D.Lgs. 165/2001, al personale docente, educativo ed Ata, compresi i compensi relativi ai progetti nazionali e comunitari”, nonché “criteri e modalità relativi alla organizzazione del lavoro e all'articolazione dell'orario del personale docente, educativo ed Ata, nonché i criteri per l'individuazione del personale docente, educativo ed Ata da utilizzare nelle attività retribuite con il fondo d'istituto”.
Il successivo comma 3, stabilisce che “le informazioni […] vengono fornite nel corso di appositi incontri, unitamente alla documentazione di riferimento”.
Il comma 4 prevede che “sulle materie che incidono sull’ordinato e tempestivo avvio dell’anno scolastico, tutte le procedure previste dal presente articolo debbono concludersi nei tempi stabiliti dal direttore generale regionale per le questioni che incidono sull’assetto organizzativo e, per le altre, nei tempi congrui per assicurare il tempestivo ed efficace inizio delle lezioni”.
Al comma 5, si legge che le relazioni sindacali all’interno dell’istituto devono essere improntate a criteri di “correttezza, collaborazione e trasparenza”.
L’articolo 47, prevede che l’attribuzione degli incarichi specifici al personale ATA, di cui al comma 1, lett. b), della medesima norma, “è effettuata dal dirigente scolastico, secondo le modalità, i criteri ed i compensi definiti dalla contrattazione d’istituto nell’ambito del piano delle attività”.
Con specifico riferimento alla Regione Marche, l’art. 17, comma 6, del contratto collettivo decentrato regionale del 19 dicembre 2008, prevede che, “allo scopo di consentire alle OO.SS. l’effettivo esercizio dei diritti di informazione successiva, […] il dirigente scolastico è tenuto a consegnare alle RSU ed alle OO.SS. aventi titolo, dei prospetti riepilogativi dell’utilizzo del fondo dell’istituzione scolastica, con l’indicazione dei nominativi, attività, impegni orari e relativi compensi”. L’art. 12 prevede che “le contrattazioni d’istituto si concludano entro e non oltre il 30 novembre dell’anno scolastico di riferimento”.
2.3 – L’art. 47 CCNL comparto scuola prevede, oltre a quanto sopra, che gli incarichi specifici assegnati al personale ATA “comportano l’assunzione di responsabilità ulteriori…” e lo “… svolgimento di compiti di particolare responsabilità, rischio o disagio, necessari per la realizzazione del piano di offerta formativa…”; detti compiti rivestono particolare importanza, in quanto “legati all’assistenza alla persona, all’assistenza agli alunni diversamente abili e al pronto soccorso”.
Ciò giustifica ampiamente il penetrante controllo delle RSU, previsto dalla contrattazione collettiva, nella definizione delle modalità, dei criteri e delle retribuzioni relativi a detti incarichi.
Come imposto dagli artt. 6, comma 4, CCNL e 12, CCDR, alla data del 30 novembre 2008, il dirigente scolastico avrebbe dovuto concludere la contrattazione d’istituto relativa agli incarichi in questione, invece, l’anno scolastico giungeva al termine e i lavoratori continuavano a ricoprire gli incarichi specifici senza che vi fosse stato un atto formale di conferimento, né, tantomeno, fosse stata resa possibile la prevista contrattazione in merito alle modalità di svolgimento, ai criteri di assegnazione e alle relative retribuzioni; è evidente l’estrema compressione della libertà sindacale realizzata dal DS, aggravata dall’importanza e delicatezza della materia.
Il personale ATA dell’Istituto svolgeva ugualmente dette delicate mansioni, pur nell’incertezza e sostanziale irregolarità della situazione.
2.4 – La ratio della previsione di cui all’art. 6 del CCNL, che, oltre ai generici richiami alla collaborazione, correttezza e trasparenza nel sistema delle relazioni sindacali, impone la consegna alle RSU della documentazione relativa alle materie di contrattazione d’istituto (dovere ribadito dagli artt. 17, comma 6, CCDR e 9, CII) consiste nel mettere le RSU in condizione di poter verificare la corretta ed effettiva realizzazione di quanto predisposto l’anno precedente, nonché di provvedere alla modifica di quanto dovesse risultare mal predisposto o non realizzato.
La mancata consegna dei prospetti dettagliati, con l’indicazione, per ciascun lavoratore, delle funzione svolte, delle ore assegnate e delle retribuzioni percepite nell’a.s. 2007/2008, non consentiva alle RSU alcuna verifica in merito alla validità di quanto stabilito in precedenza ed alla sua effettiva realizzazione.
La scelta di non consegnare i prospetti in questione impediva, o, quantomeno, ostacolava, il corretto svolgimento della trattativa sindacale.
3 – Decisione
Accogliendo il ricorso proposto dalla rappresentante provinciale dei Cobas, il Giudice del lavoro di Macerata dichiarava “l'antisindacalità delle condotte tenute dal Dirigente Scolastico”, ordinava “la cessazione di tali condotte”, nonché di consentire l'accesso ai documenti e provvedere al rilascio di copia dei prospetti richiesti dalla RSU; ordinava, inoltre, la convocazione delle RSU per la consegna di detta documentazione.
Più in generale, ordinava al DS di “attivare la contrattazione con le RSU per la gestione delle attività che devono essere disciplinate con contrattazione d'istituto”.
Il provvedimento seguiva di qualche anno un analogo decreto, emesso dal Giudice del lavoro di Camerino, il quale, sempre su ricorso dei COBAS – Comitati di Base della scuola, aveva sanzionato la medesima condotta, posta in essere da un preside di un istituto di istruzione superiore sito nella città di San Severino Marche.
Avv. Alberto Piloni
1 – Antefatto
1.1 – Nell’ambito della trattativa sindacale volta alla determinazione dei criteri per la ripartizione delle risorse del fondo d’istituto, la RSU Cobas, prof.ssa XXXXXX, con comunicazione del 14 aprile 2009, chiedeva al dirigente scolastico, dott. XXXXXX, la consegna di “un prospetto comprensibile del fondo incentivante riguardante l'anno scolastico 2007/2008, che preveda nominativi, tipo di attività, il compenso orario, il numero delle ore effettuate e il compenso totale”.
Il dirigente scolastico non consegnava detto prospetto adducendo (con una comunicazione a dir poco criptica) inesistenti impedimenti dovuti alla legge sulla tutela dei dati sensibili (D.Lgs 196/2003).
Con comunicazione del 22 maggio 2009 la rappresentante provinciale del sindacato ricorrente, prof.ssa XXXXXX, invitava e diffidava il DS “a consegnare alla RSU d'istituto un prospetto contenente i nominativi dei soggetti che nel corso dell'a.s. 2007/2008 hanno svolto attività integrative del POF retribuite con il fondo d'istituto, le attività e le ore svolte, nonché i compensi percepiti, come previsto dall'art. 7 del CCNL vigente”.
Il preside non forniva risposta alle legittime richieste sindacali sopra riportate e ciò nonostante il termine per la conclusione della contrattazione d'istituto fosse ampiamente scaduto.
La vicenda non costituiva un episodio isolato ed era sintomatica di come, fino ad allora, il DS avesse impedito alle RSU (ed in particolare alla prof.ssa XXXXXX) qualsiasi possibilità di programmazione, controllo e verifica in ordine alla gestione del fondo d’istituto e, più in generale, abbia impedito lo svolgimento di una corretta attività sindacale di contrattazione.
Infatti, già con precedente decreto veniva dichiarata dal Tribunale di Macerata l'antisindacalità della condotta del prof. XXXXXX, consistita nel non aver convocato l'RSU COBAS ad una riunione per la discussione e stipula del contratto d'istituto.
Inoltre, in modo del tutto arbitrario, il preside provvedeva a conferire incarichi retribuiti con il fondo d'istituto senza la necessaria preventiva contrattazione con le RSU.
2 – Diritto
2.1 – Riferimenti normativi
Lo statuto dei lavoratori prevede, all’art. 28, la possibilità per gli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali, di adire l’autorità giudiziaria “qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l’esercizio della libertà ed attività sindacale …”.
2.2 – Riferimenti contrattuali
L’art. 6, numero 2, lett. b) e g), del CCNL comparto scuola, pubblicato nel suppl. ord. alla G. U. n. 292, del 17 dicembre 2008, prevede che “sono materie di informazione preventiva annuale […] il piano delle risorse complessive per il salario accessorio, ivi comprese quelle di fonte non contrattuale”, “tutte le materie di contrattazione” […].
Le lettere h), l) e m) prevedono che “sono materie di contrattazione integrativa le [...] modalità di utilizzazione del personale docente in rapporto al piano dell'offerta formativa e al piano delle attività e modalità di utilizzazione del personale Ata in relazione al relativo piano delle attività formulato dal DSGA, sentito il personale medesimo...”, “i criteri per la ripartizione delle risorse del fondo d'istituto e per l'attribuzione dei compensi accessori, ai sensi dell'art. 45, comma 1, del D.Lgs. 165/2001, al personale docente, educativo ed Ata, compresi i compensi relativi ai progetti nazionali e comunitari”, nonché “criteri e modalità relativi alla organizzazione del lavoro e all'articolazione dell'orario del personale docente, educativo ed Ata, nonché i criteri per l'individuazione del personale docente, educativo ed Ata da utilizzare nelle attività retribuite con il fondo d'istituto”.
Il successivo comma 3, stabilisce che “le informazioni […] vengono fornite nel corso di appositi incontri, unitamente alla documentazione di riferimento”.
Il comma 4 prevede che “sulle materie che incidono sull’ordinato e tempestivo avvio dell’anno scolastico, tutte le procedure previste dal presente articolo debbono concludersi nei tempi stabiliti dal direttore generale regionale per le questioni che incidono sull’assetto organizzativo e, per le altre, nei tempi congrui per assicurare il tempestivo ed efficace inizio delle lezioni”.
Al comma 5, si legge che le relazioni sindacali all’interno dell’istituto devono essere improntate a criteri di “correttezza, collaborazione e trasparenza”.
L’articolo 47, prevede che l’attribuzione degli incarichi specifici al personale ATA, di cui al comma 1, lett. b), della medesima norma, “è effettuata dal dirigente scolastico, secondo le modalità, i criteri ed i compensi definiti dalla contrattazione d’istituto nell’ambito del piano delle attività”.
Con specifico riferimento alla Regione Marche, l’art. 17, comma 6, del contratto collettivo decentrato regionale del 19 dicembre 2008, prevede che, “allo scopo di consentire alle OO.SS. l’effettivo esercizio dei diritti di informazione successiva, […] il dirigente scolastico è tenuto a consegnare alle RSU ed alle OO.SS. aventi titolo, dei prospetti riepilogativi dell’utilizzo del fondo dell’istituzione scolastica, con l’indicazione dei nominativi, attività, impegni orari e relativi compensi”. L’art. 12 prevede che “le contrattazioni d’istituto si concludano entro e non oltre il 30 novembre dell’anno scolastico di riferimento”.
2.3 – L’art. 47 CCNL comparto scuola prevede, oltre a quanto sopra, che gli incarichi specifici assegnati al personale ATA “comportano l’assunzione di responsabilità ulteriori…” e lo “… svolgimento di compiti di particolare responsabilità, rischio o disagio, necessari per la realizzazione del piano di offerta formativa…”; detti compiti rivestono particolare importanza, in quanto “legati all’assistenza alla persona, all’assistenza agli alunni diversamente abili e al pronto soccorso”.
Ciò giustifica ampiamente il penetrante controllo delle RSU, previsto dalla contrattazione collettiva, nella definizione delle modalità, dei criteri e delle retribuzioni relativi a detti incarichi.
Come imposto dagli artt. 6, comma 4, CCNL e 12, CCDR, alla data del 30 novembre 2008, il dirigente scolastico avrebbe dovuto concludere la contrattazione d’istituto relativa agli incarichi in questione, invece, l’anno scolastico giungeva al termine e i lavoratori continuavano a ricoprire gli incarichi specifici senza che vi fosse stato un atto formale di conferimento, né, tantomeno, fosse stata resa possibile la prevista contrattazione in merito alle modalità di svolgimento, ai criteri di assegnazione e alle relative retribuzioni; è evidente l’estrema compressione della libertà sindacale realizzata dal DS, aggravata dall’importanza e delicatezza della materia.
Il personale ATA dell’Istituto svolgeva ugualmente dette delicate mansioni, pur nell’incertezza e sostanziale irregolarità della situazione.
2.4 – La ratio della previsione di cui all’art. 6 del CCNL, che, oltre ai generici richiami alla collaborazione, correttezza e trasparenza nel sistema delle relazioni sindacali, impone la consegna alle RSU della documentazione relativa alle materie di contrattazione d’istituto (dovere ribadito dagli artt. 17, comma 6, CCDR e 9, CII) consiste nel mettere le RSU in condizione di poter verificare la corretta ed effettiva realizzazione di quanto predisposto l’anno precedente, nonché di provvedere alla modifica di quanto dovesse risultare mal predisposto o non realizzato.
La mancata consegna dei prospetti dettagliati, con l’indicazione, per ciascun lavoratore, delle funzione svolte, delle ore assegnate e delle retribuzioni percepite nell’a.s. 2007/2008, non consentiva alle RSU alcuna verifica in merito alla validità di quanto stabilito in precedenza ed alla sua effettiva realizzazione.
La scelta di non consegnare i prospetti in questione impediva, o, quantomeno, ostacolava, il corretto svolgimento della trattativa sindacale.
3 – Decisione
Accogliendo il ricorso proposto dalla rappresentante provinciale dei Cobas, il Giudice del lavoro di Macerata dichiarava “l'antisindacalità delle condotte tenute dal Dirigente Scolastico”, ordinava “la cessazione di tali condotte”, nonché di consentire l'accesso ai documenti e provvedere al rilascio di copia dei prospetti richiesti dalla RSU; ordinava, inoltre, la convocazione delle RSU per la consegna di detta documentazione.
Più in generale, ordinava al DS di “attivare la contrattazione con le RSU per la gestione delle attività che devono essere disciplinate con contrattazione d'istituto”.
Il provvedimento seguiva di qualche anno un analogo decreto, emesso dal Giudice del lavoro di Camerino, il quale, sempre su ricorso dei COBAS – Comitati di Base della scuola, aveva sanzionato la medesima condotta, posta in essere da un preside di un istituto di istruzione superiore sito nella città di San Severino Marche.
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Guida in stato di alterazione da sostanze stupefacenti: rilevanza probatoria degli esami delle urine. Tribunale di Camerino n. 277, del 2 ottobre 2009
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Art. 187 D.L.vo 285/1992 – C.d.S.. Guida in stato di alterazione psicofisica per l'uso di sostanze stupefacenti: rilevanza probatoria degli esami delle urine.
Commento alla sentenza del Tribunale di Camerino, n. 277, del 2 ottobre 2009
Con sentenza n. 277, del 2 ottobre 2009, il tribunale di Camerino assolveva il sig. X dal reato previsto e punito dall'art. 187 cds
L'assoluzione si basava sul fatto che l'esame delle urine, unico accertamento cui l'imputato era stato sottoposto, non era sufficiente a determinarne l'effettiva alterazione dovuta alla sostanza stupefacente in tal modo rilevata.
La sentenza si inserisce in un filone che, all'epoca della sua emanazione, contava non molti precedenti (cfr. Cass. Penale, sezione IV, 9 luglio 2009, n. 28219; Cass. Penale, Sezione IV, 8 luglio 2008, n. 33312, citata in motivazione; Tribunale di Savona 3 aprile 2009, n. 354; da ultimo si segnala Trib. Bologna, 7 gennaio 2010, n 26).
L'art. 187 C.d.S. vieta la “... guida in stato di alterazione psico-fisica dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope...”, che punisce con “... l'ammenda da euro 1.500 a euro 6.000 e l'arresto da tre mesi ad un anno” e la “sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno”; per gli autisti di autobus, veicoli con massa complessiva superiore a 3,5t, o di “complessi di veicoli” nonché in caso di recidiva nel biennio, la patente viene revocata. Nel caso in cui si provochi un incidente, le pene sono raddoppiate.
Particolare importanza rivestono gli accertamenti da esperire al fine di appurare l'effettivo stato di alterazione psico-fisica del soggetto e, proprio a questo aspetto il giudice di Camerino ha rivolto la sua attenzione.
Il comma 2 dell'art. 187 prevede che gli agenti “... possono sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili”; in base al comma 3, “quando gli accertamenti di cui al comma 2 forniscono esito positivo ovvero quando si ha altrimenti ragionevole motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi sotto l'effetto conseguente all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, gli agenti di Polizia stradale [...] accompagnano il conducente presso strutture sanitarie fisse o mobili afferenti ai suddetti organi di Polizia stradale ovvero presso le strutture sanitarie pubbliche o presso quelle accreditate o comunque a tali fini equiparate, per il prelievo di campioni di liquidi biologici ai fini dell'effettuazione degli esami necessari ad accertare la presenza di sostanze stupefacenti o psicotrope e per la relativa visita medica”.
I campioni biologici da sottoporre ad esame sono le urine, la saliva e il sangue.
Il 25 febbraio 2005 il Ministero della Salute ha emanato il “Protocollo operativo droga”, elaborato da una commissione di esperti appositamente nominata e dedicato in modo specifico agli accertamenti di cui all'art. 187 Cds.
Definite le matrici biologiche utilizzabili per l'accertamento (sangue, urina e saliva) il protocollo stabilisce “l'indispensabilità del controllo su sangue, sostituibile dalla saliva in caso di diniego al prelievo ematico”, una “scheda di valutazione clinico-tossicologica delle condizioni psico-fisiche del soggetto” e varie altre “procedure operative per l'applicazione della Catena di custodia” dei campioni sottoposti ad analisi (BORRIELLO, CHIAROTTI, LODI, I protocolli operativi per gli articoli 186 e 187 del Codice della strada: un incipit necessario per sottoporre a verifica attuativa, Politica Sanitaria).
Il protocollo ministeriale, indipendentemente dalla sua operatività giuridica, appare significativo in quanto fornisce, da un punto di vista prettamente scientifico, valutazioni sui diversi metodi di accertamento, attribuendo all'esame delle urine una valenza decisamente secondaria. È, infatti, previsto che, laddove l'esame delle urine dovesse risultare positivo, ma quello del sangue o della saliva negativo, saranno i secondi a prevalere sul primo.
In altri termini, si enuncia la sostanziale inadeguatezza dell'esame delle urine, rilevando la possibilità che lo stesso risulti positivo anche in soggetti non in stato di alterazione.
In termini scientifici (nel mio caso, necessariamente approssimativi), i metaboliti delle varie sostanze stupefacenti sono rilevabili nelle urine, con valori che indicano positività (concentrazioni superiori ai 50 mg/l), anche a distanza di diversi giorni dall'assunzione, quando, cioè, gli effetti della sostanza sono ampiamente scemati.
Al riguardo, si segnala uno studio del National Drug Court Institute, Alexandria, Virginia (Volume V, iussue I), dedicato alla ritenzione dei cannabinoidi ed alla sua valutazione in termini probatori.
Lo studio contiene una significativa tabella (pag. 36) che elenca i risultati di alcune ricerche compiute fra il 1982 e il 1999, sul tempo di rilevabilità dei cannabinoidi nelle urine: dalla tabella si evince che l'assunzione di marjuana (o dei suoi derivati) viene rilevata, con valori superiori a 50 mg/l, per un periodo che va dai 25 ai 67 giorni.
Ciò sta inequivocabilmente a significare che la positività ai cannabinoidi rilevata tramite l'esame delle urine, non può avere significato probatorio in ordine all'effettivo stato di alterazione del soggetto al momento della guida; dato che l'art. 187 CdS sanziona la condotta del soggetto che si pone alla giuda quando si trova in stato di alterazione e, cioè, quando è ancora sotto l'effetto della sostanza stupefacente, l'esame delle urine non può essere utilizzato come prova.
L'esperienza quotidiana di noi operatori del settore giudiziario insegna, invece, che la maggior parte delle contestazioni per violazione dell'art. 187 CdS avviene unicamente sulla base dell'esame delle urine, come nel caso che ha occupato il Tribunale di Camerino nella sentenza che si commenta.
Nella motivazione il giudice accoglieva la tesi difensiva e, infatti, dopo aver rilevato che la fattispecie di cui all'ert. 187 CdS “... è costituita dal concorso necessario di due elementi: a) dallo stato di alterazione tale da compromettere le normali condizioni psico-fisiche indispensabili nello svolgimento della guida e da costituire di per sé una condotta di pericolo per la sicurezza della circolazione stradale; b) l'avvenuta assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, idonee a causare lo stato di alterazione e riscontrabili con idonee analisi di laboratorio”, che l'imputato era stato fermato mentre era alla giuda di un veicolo e che era stata accertata la “presenza nelle urine di [...] cannabinoidi”, osservava, tuttavia, che poteva “... ritenersi alla stregua di consapevolezza scientifica oramai comune che la presenza di metaboliti costituisce la fase conseguente sia al momento dell'assunzione della sostanza, sia la periodo di efficacia del principio attivo”, la fase, cioè, in cui “... l'organismo [...] espelle le scorie”.
Tanto premesso, concludeva che “lo stato di alterazione non può essere desunto dalla mera presenza di metaboliti le cui tracce si trattengono nelle urine anche dopo la fine dell'efficacia del principio attivo”, assolvendo l'imputato “perché il fatto non sussiste”.
Avv. Alberto Piloni
Commento alla sentenza del Tribunale di Camerino, n. 277, del 2 ottobre 2009
Con sentenza n. 277, del 2 ottobre 2009, il tribunale di Camerino assolveva il sig. X dal reato previsto e punito dall'art. 187 cds
L'assoluzione si basava sul fatto che l'esame delle urine, unico accertamento cui l'imputato era stato sottoposto, non era sufficiente a determinarne l'effettiva alterazione dovuta alla sostanza stupefacente in tal modo rilevata.
La sentenza si inserisce in un filone che, all'epoca della sua emanazione, contava non molti precedenti (cfr. Cass. Penale, sezione IV, 9 luglio 2009, n. 28219; Cass. Penale, Sezione IV, 8 luglio 2008, n. 33312, citata in motivazione; Tribunale di Savona 3 aprile 2009, n. 354; da ultimo si segnala Trib. Bologna, 7 gennaio 2010, n 26).
L'art. 187 C.d.S. vieta la “... guida in stato di alterazione psico-fisica dopo aver assunto sostanze stupefacenti o psicotrope...”, che punisce con “... l'ammenda da euro 1.500 a euro 6.000 e l'arresto da tre mesi ad un anno” e la “sospensione della patente di guida da sei mesi ad un anno”; per gli autisti di autobus, veicoli con massa complessiva superiore a 3,5t, o di “complessi di veicoli” nonché in caso di recidiva nel biennio, la patente viene revocata. Nel caso in cui si provochi un incidente, le pene sono raddoppiate.
Particolare importanza rivestono gli accertamenti da esperire al fine di appurare l'effettivo stato di alterazione psico-fisica del soggetto e, proprio a questo aspetto il giudice di Camerino ha rivolto la sua attenzione.
Il comma 2 dell'art. 187 prevede che gli agenti “... possono sottoporre i conducenti ad accertamenti qualitativi non invasivi o a prove, anche attraverso apparecchi portatili”; in base al comma 3, “quando gli accertamenti di cui al comma 2 forniscono esito positivo ovvero quando si ha altrimenti ragionevole motivo di ritenere che il conducente del veicolo si trovi sotto l'effetto conseguente all'uso di sostanze stupefacenti o psicotrope, gli agenti di Polizia stradale [...] accompagnano il conducente presso strutture sanitarie fisse o mobili afferenti ai suddetti organi di Polizia stradale ovvero presso le strutture sanitarie pubbliche o presso quelle accreditate o comunque a tali fini equiparate, per il prelievo di campioni di liquidi biologici ai fini dell'effettuazione degli esami necessari ad accertare la presenza di sostanze stupefacenti o psicotrope e per la relativa visita medica”.
I campioni biologici da sottoporre ad esame sono le urine, la saliva e il sangue.
Il 25 febbraio 2005 il Ministero della Salute ha emanato il “Protocollo operativo droga”, elaborato da una commissione di esperti appositamente nominata e dedicato in modo specifico agli accertamenti di cui all'art. 187 Cds.
Definite le matrici biologiche utilizzabili per l'accertamento (sangue, urina e saliva) il protocollo stabilisce “l'indispensabilità del controllo su sangue, sostituibile dalla saliva in caso di diniego al prelievo ematico”, una “scheda di valutazione clinico-tossicologica delle condizioni psico-fisiche del soggetto” e varie altre “procedure operative per l'applicazione della Catena di custodia” dei campioni sottoposti ad analisi (BORRIELLO, CHIAROTTI, LODI, I protocolli operativi per gli articoli 186 e 187 del Codice della strada: un incipit necessario per sottoporre a verifica attuativa, Politica Sanitaria).
Il protocollo ministeriale, indipendentemente dalla sua operatività giuridica, appare significativo in quanto fornisce, da un punto di vista prettamente scientifico, valutazioni sui diversi metodi di accertamento, attribuendo all'esame delle urine una valenza decisamente secondaria. È, infatti, previsto che, laddove l'esame delle urine dovesse risultare positivo, ma quello del sangue o della saliva negativo, saranno i secondi a prevalere sul primo.
In altri termini, si enuncia la sostanziale inadeguatezza dell'esame delle urine, rilevando la possibilità che lo stesso risulti positivo anche in soggetti non in stato di alterazione.
In termini scientifici (nel mio caso, necessariamente approssimativi), i metaboliti delle varie sostanze stupefacenti sono rilevabili nelle urine, con valori che indicano positività (concentrazioni superiori ai 50 mg/l), anche a distanza di diversi giorni dall'assunzione, quando, cioè, gli effetti della sostanza sono ampiamente scemati.
Al riguardo, si segnala uno studio del National Drug Court Institute, Alexandria, Virginia (Volume V, iussue I), dedicato alla ritenzione dei cannabinoidi ed alla sua valutazione in termini probatori.
Lo studio contiene una significativa tabella (pag. 36) che elenca i risultati di alcune ricerche compiute fra il 1982 e il 1999, sul tempo di rilevabilità dei cannabinoidi nelle urine: dalla tabella si evince che l'assunzione di marjuana (o dei suoi derivati) viene rilevata, con valori superiori a 50 mg/l, per un periodo che va dai 25 ai 67 giorni.
Ciò sta inequivocabilmente a significare che la positività ai cannabinoidi rilevata tramite l'esame delle urine, non può avere significato probatorio in ordine all'effettivo stato di alterazione del soggetto al momento della guida; dato che l'art. 187 CdS sanziona la condotta del soggetto che si pone alla giuda quando si trova in stato di alterazione e, cioè, quando è ancora sotto l'effetto della sostanza stupefacente, l'esame delle urine non può essere utilizzato come prova.
L'esperienza quotidiana di noi operatori del settore giudiziario insegna, invece, che la maggior parte delle contestazioni per violazione dell'art. 187 CdS avviene unicamente sulla base dell'esame delle urine, come nel caso che ha occupato il Tribunale di Camerino nella sentenza che si commenta.
Nella motivazione il giudice accoglieva la tesi difensiva e, infatti, dopo aver rilevato che la fattispecie di cui all'ert. 187 CdS “... è costituita dal concorso necessario di due elementi: a) dallo stato di alterazione tale da compromettere le normali condizioni psico-fisiche indispensabili nello svolgimento della guida e da costituire di per sé una condotta di pericolo per la sicurezza della circolazione stradale; b) l'avvenuta assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope, idonee a causare lo stato di alterazione e riscontrabili con idonee analisi di laboratorio”, che l'imputato era stato fermato mentre era alla giuda di un veicolo e che era stata accertata la “presenza nelle urine di [...] cannabinoidi”, osservava, tuttavia, che poteva “... ritenersi alla stregua di consapevolezza scientifica oramai comune che la presenza di metaboliti costituisce la fase conseguente sia al momento dell'assunzione della sostanza, sia la periodo di efficacia del principio attivo”, la fase, cioè, in cui “... l'organismo [...] espelle le scorie”.
Tanto premesso, concludeva che “lo stato di alterazione non può essere desunto dalla mera presenza di metaboliti le cui tracce si trattengono nelle urine anche dopo la fine dell'efficacia del principio attivo”, assolvendo l'imputato “perché il fatto non sussiste”.
Avv. Alberto Piloni
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